Il ghetto lotta: la rivolta degli ebrei di Varsavia

VARSAVIA COSMOPOLITA

Varsavia è stata per molto tempo una città dal carattere cosmopolita, aiutata in questo dal fatto che ospitava la comunità più numerosa degli ebrei della Polonia e del mondo dopo quella newyorkese. Stando ad un censimento del governo polacco del 1931 gli ebrei di Varsavia erano 352.659, circa il 30,1% della popolazione[1]. L’antica presenza ebraica nella città e nell’intero dello stesso stato polacco, aveva dato un impulso all’economia nazionale polacca e aveva contribuito al riconoscimento dell’identità ebraica, contribuendo allo sviluppo del livello culturale e religioso, sia in ambito polacco sia in ambito propriamente ebraico. Nonostante la composizione eterogenea della popolazione cittadina, è attestata la presenza di quartieri propriamente ebraici, soprattutto nella parte settentrionale della città, ma la presenza ebraica era regolare e suddivisa a diversi livelli sociali. Erano presenti le realtà più diversificate, dai laici “assimilati” impegnati politicamente all’interno del sistema polacco, a coloro che aderivano agli ideali sionisti, a quanti praticavano una vita religiosa radicale in linea con la fede mosaica, alle numerose varianti sociali.

Dopo l’invasione tedesca della Polonia del settembre 1939, le truppe della Wehrmacht raggiunsero Varsavia in breve tempo, che cadde dopo aver combattuto per venti giorni[2]. Dopo aver portato a termine l’occupazione della Polonia, lo stato venne diviso in tre zone: la parte occidentale venne annessa al Reich, quella orientale all’URSS in forza della clausola segreta inclusa nel patto Molotov-Ribbentrop. Diversa fu la sorte della zona centrale della Polonia che venne costituita come Governatorato Generale e rimase sotto il controllo tedesco affidato da ottobre all’avvocato nazionalsocialista Hans Frank. Il governatorato venne suddiviso in cinque distretti, uno di questi era quello di Varsavia. In poco tempo, vista la numerosa presenza ebraica nell’intera regione polacca, si presentò il problema del trattamento degli ebrei: vennero applicate più o meno le stesse procedure attuate in Germania ma in termini più brutali e con ritmi più accelerati, volte a distinguere ed isolare la componente ebrea, mantenendo sempre un’atmosfera profondamente enigmatica. Il 23 novembre si impose l’obbligo di esporre un segno distintivo costituito da un nastro bianco riportante la stella di David di colore blu e lo stesso obbligo venne esteso anche ai negozi e alle attività commerciali gestite da ebrei; mentre nel dicembre 1939 venne vietato lo spostamento di residenza all’interno del Governatorato. La politica discriminatoria a Varsavia venne emanata dallo Stadthauptmann Ludwig Leist e puntava alla progressiva distinzione e di conseguenza all’isolamento della componente ebraica dalla società polacca. In particolare venne imposto il divieto di salire sui mezzi pubblici urbani senza uno speciale permesso (26 gennaio 1940) e vennero istituiti dei compartimenti riservati agli ebrei (29 settembre 1940). Il divieto venne progressivamente esteso alla possibilità di frequentare luoghi pubblici come bar, ristoranti esterni al quartiere ebraico (marzo 1940), non ancora istituito come ghetto. Lo scopo di questi provvedimenti era mirato a rendere impossibile la loro sopravvivenza: vennero licenziati dagli istituti amministrativi, esclusi dal sistema di assistenza e si procedette alla confisca dei patrimoni ebrei sia nell’ipotesi di un loro sfruttamento da parte del Reich, sia per annullare ogni volontà di resistenza dei diretti interessati.[3] Questi provvedimenti vennero preceduti da un decreto altamente significativo che contribuì a confondere la popolazione ebraica sugli intenti dei tedeschi: il 21 settembre 1939 su iniziativa di Reinhard Heydrich venne istituito in ogni città del Governatorato lo Judenrat, il consiglio ebraico composto da 24 ebrei locali, che sostituiva il vecchio Consiglio della comunità ebraica. Lo Judenrat assumeva ora il compito di tramite con le autorità tedesche, ma soprattutto di eseguire gli ordini emanati dagli occupanti. Esso pur apparendo un’istituzione di autogoverno fu in realtà uno strumento di controllo dei tedeschi sugli ebrei.[4] Come presidente dell’istituzione di Varsavia venne scelto l’ingegnere Adam Czerniakow, un ebreo polacco favorevole all’assimilazione con la popolazione locale e attivo sul piano politico. Czerniakow rivestì la carica di presidente dello Judenrat fino alla notte del 22 luglio 1942 quando si suicidò.

Tuttavia già nel tardo autunno del 1939 iniziarono i primi fenomeni di ghettizzazione del Governatorato, trasformazioni che furono dovute all’iniziativa delle singole città e di autorità locali, ma che inizialmente non seguirono criteri apparentemente regolari. In una discussione del novembre 1939 con Frank e altri capi dell’amministrazione locale, Ludwig Fischer, governatore del distretto, affermò che a Varsavia “si deve istituire un ghetto separato per gli ebrei; sua eccellenza il governatore generale appoggia questa decisione”.[5]

L’ombra dell’istituzione del ghetto era arrivata fino ai diretti interessati, causando variegate reazioni: prevalevano sentimenti di scoraggiamento e disperazione, ma si diffuse anche la convinzione o forse la speranza che la costituzione di un ghetto a Varsavia di così grandi dimensioni sarebbe stato impossibile e che la costituzione di un ghetto chiuso sarebbe stata assolutamente impensabile, per via del fatto che numerosi edifici governativi si sarebbero trovato all’interno del ghetto.[6] La concretizzazione dell’isolamento non venne infatti portata a termine fino all’autunno dell’anno successivo, anche se dall’aprile del 1940 le autorità d’occupazione ordinarono allo Judenrat di Varsavia di iniziare la costruzione di una serie di mura, ovviamente a loro spese, che dovevano racchiudere alcune delle zone di Varsavia adibite alla presenza di ebrei. La spiegazione ufficiale che venne emanata per questi provvedimenti era costituita da motivazioni igienico-sanitarie e come protezione degli ebrei dalle violenze degli antisemiti polacchi.[7] Nel periodo estivo si diffusero con maggiore insistenza le voci relative all’istituzione del ghetto, ma Czerniakow riporta che vennero smentite dalle autorità locali. Nell’estate del 1940 un’ordinanza del comando tedesco istituì a Varsavia tre zone di abitazione: un quartiere riservato ai tedeschi, uno riservato ai polacchi ed infine uno agli ebrei. Coloro che non  abitavano nella zona riservata alla propria categoria vennero espulsi e costretti in breve tempo a trovare una sistemazione nell’area assegnata. Inutile dire che il provvedimento investì particolarmente gli ebrei, la cui area riservata era ubicata nella parte centro settentrionale della città, dove esisteva anche il vecchio ghetto medievale. Prima di optare per la soluzione ghetto vennero esaminate diverse possibilità per risolvere la questione ebraica, anche perché sembrava ancora viva l’opzione della creazione di una riserva nella zona di Lublino o il trasferimento in Madagascar e parte in Palestina. Tuttavia a fine agosto si pensò seriamente all’idea dell’isolamento nella stessa città di Varsavia, verosimilmente organizzato come un ghetto, situato più o meno nel centro della città. È opportuno sottolineare che le autorità tedesche erano restie ad utilizzare la parola ghetto, preferendo la versione “quartiere residenziale ebraico” o “Seuchensperrgebiet” (area di quarantena).[8] Il 12 ottobre Czerniakow venne informato della decisione relativa all’effettiva istituzione di un ghetto a Varsavia, ma venne tenuto all’oscuro dei confini “del quartiere”.[9]

La data limite entro la quale tutti gli ebrei di Varsavia furono obbligati a spostarsi venne fissata alla fine di ottobre 1940, ma gli spostamenti si protrassero fino alla metà di novembre.[10] La conseguenza immediata di un simile trasferimento fu la reciproca ricerca di una nuova abitazione, che diede vita ad una corsa tra polacchi ed ebrei per scambiarsi i relativi appartamenti e fu, inizialmente, uno dei problemi più sentiti. Inevitabile fu l’aumento dei casi di corruzione e in un secondo momento si presentò anche l’angoscioso problema della coabitazione tra sconosciuti[11]: per evitare questa situazione parenti e amici optarono per le sistemazioni in comune in un unico appartamento.

Il 16 novembre 1940 la pubblicazione della chiusura ermetica del ghetto da parte delle autorità tedesche[12], accompagnata da giustificazioni igienico-sanitarie, causò il panico tra i diretti interessati. Racconta Ringelblum: “Il sabato in cui è stato istituito il ghetto è stata una giornata terribile. La gente della strada non sapeva che sarebbe stato un ghetto chiuso e così si è tratta di un fulmine a ciel sereno”.[13] Il “quartiere di residenza ebraico” venne in realtà trasformato in una gabbia dove erano stipate più di 400 mila persone.[14] Inizialmente alcuni abitanti del ghetto interpretarono l’isolamento come una possibilità per godere di immunità e protezione e per poter vivere la propria identità ebraica, ma anche queste speranze si rivelarono in breve tempo delle illusioni. È opportuno riconoscere che il mondo ebraico, a discapito di come veniva presentato dalla propaganda antisemita europea, era estremamente variegato ed eterogeneo, il che contribuiva ad aumentare la già profonda tensione interna.

Il governatore Fischer in un rapporto del settembre 1941 scrisse in relazione al “quartiere ebraico di Varsavia”: “il trasferimento fu effettuato in circa sei settimane, con un enorme sforzo organizzativo. Il quartiere si estendeva in un’area di 403 ettari[15], popolato da 450-500 mila ebrei in una condizione di estremo affollamento. Si calcola che 108 mila ebrei vivano in un chilometro; nelle zone residenziali di Varsavia la percentuale, già al di sopra della media, è di 38 mila per chilometro quadrato”.[16] Il ghetto era circondato da mura alte due metri e mezzo a cui venne aggiunto il filo spinato, intervallate da alcune porte che dall’iniziale numero di ventidue vennero progressivamente ridotte a tredici e poi a quattro, rigorosamente sorvegliate da guardie tedesche, ebree e polacche. L’area riservata era costituita da due parti distinte: il piccolo ghetto ed il grande ghetto. Successivamente negli anni seguenti l’intero ghetto venne ridotto a più riprese e le due parti potevano comunicare attraverso un ponte di legno al di sopra di via Chlodna, “riservata ad ariani”.

Dai documenti dello Judenrat emerge che nel gennaio 1941 erano stati censiti 378.979 ebrei nel ghetto, a cui vanno aggiunti gli ebrei che vennero fatti spostare dall’intero distretto: nell’aprile 1941, 72 mila ebrei vennero deportati nel ghetto di Varsavia dalle zone circostanti. Questa nuova massa di profughi complicò ulteriormente la situazione, perché questi ultimi non possedendo né casa né alloggio, trovavano riparo nei centri di raccolta o nella formula della coabitazione, ma allo stesso tempo contribuirono a peggiorare le già precarie condizioni di salute e di vita del ghetto.[17] Dal 23 ottobre 1941 inoltre i tedeschi liquidarono la parte minore del ghetto.[18] Si può quindi immaginare come l’insufficiente spazio e l’altissima densità della popolazione abbiano portato ad una situazione di estremo sovraffollamento, profondamente caotica, caratterizzata da sporcizia, povertà ed epidemie. Tuttavia le condizioni di vita del ghetto non erano uguali per tutti, ma si distinguevano a seconda delle possibilità finanziarie degli abitanti: mentre gli affaristi e gli esponenti dell’élite portavano avanti una vita di piaceri e lusso, circa 200 mila persone si trovavano in una situazione intermedia: attraverso i beni che erano riusciti a conservare e un lavoro temporaneo nelle fabbriche del ghetto, riuscivano a procurarsi gli alimenti indispensabili per sopravvivere. Quando le scorte e il denaro si esaurirono questa fascia di persone andò ad assimilarsi alle masse di affamati che costituivano un numero sempre più cospicuo. Da un rapporto ufficiale stilato dal Reichskuratorium für Wirtschaftlichkeit, si rileva che le calorie medie di cui disponevano gli ebrei del ghetto di Varsavia (da 620 a 1308 calorie al giorno, a seconda della categoria), erano assolutamente insufficienti per garantire un’attività lavorativa normale.[19] Note sono le divergenze di pareri sulle quantità e le modalità di gestione delle razioni alimentari da destinare ai “quartieri residenziali ebraici”: quanti gestivano i ghetti e le attività manifatturiere ivi collocate premevano per un effettivo aumento delle derrate alimentari in vista di una maggiore produzione, mentre i dirigenti più altolocati, qual è il caso di Frank, aderivano ad una logica “logoramentista”, ovvero di sostanziale indifferenza per le forniture alimentari dei ghetti.[20]

Lo Judenrat aveva cercato di far fronte a questa situazione desolante istituendo dei centri di raccolta, di assistenza e di mutuo soccorso dove gli ebrei più poveri potevano trovare rifugio. Tuttavia il sovraffollamento, l’insufficienza alimentare, la sporcizia e il freddo fecero registrare i primi casi di tifo e le prime morti per inedia. Le parole di Ringelblum appaiono significative: “Stando alle statistiche, nell’aprile 1941 i decessi hanno superato di sette volte quelli del novembre 1940”[21]. Gli approvvigionamenti del ghetto derivavano dal mercato interno gestito dallo Judenrat, ma non essendo assolutamente sufficienti, venivano integrate da un mercato parallelo di contrabbando con la parte “ariana” della città, successivamente stroncato dai tedeschi a partire dal giugno del 1942.[22] I normali beni di consumo che entravano ufficialmente nel ghetto dovevano prima passare attraverso la Transferstelle, l’ufficio tedesco che controllava le entrate e le uscite del ghetto e che allo stesso tempo dava l’accesso ad un binario secondario della ferrovia. In funzione della vicinanza alla ferrovia il luogo verrà usato in seguito come punto di partenza dei vagoni verso i campi di sterminio o di lavoro, diventando il famigerato Umschalgplatz.

All’interno del ghetto le fabbriche tessili e conciarie, gestite soprattutto da imprenditori tedeschi rappresentarono, almeno per un certo periodo e per i pochi che potevano lavorare, una garanzia alimentare e la tranquillità di non essere prelevati e diretti ai campi.

LA VITA NELLA CLANDESTINITÀ

Durante l’occupazione tedesca della Polonia, i movimenti giovanili e i partiti politici ebraici che avevano segnato la politica di Varsavia negli anni precedenti non smisero di esistere, ma per quanto possibile, continuarono la loro attività nella clandestinità. Lo stesso avvenne anche dopo i provvedimenti di isolamento e la costituzione del ghetto, anche se le dimostrazioni pubbliche vennero limitate e l’attività clandestina, altamente pericolosa, venne riservata a pochi intimi. Inizialmente c’era una discordanza tra quanti sostenevano la necessità di portare assistenza alla comunità del ghetto e quanti preferivano limitarsi a svolgere la classica attività politica. Le riunioni dei partiti avvenivano solitamente nelle cucine popolari messe a disposizione dalle associazioni di mutuo soccorso del ghetto ed erano esempio del legame tra l’attività politica e l’assistenza sociale. Il partito più vitale in questo senso era il Bund, il partito socialista ebraico che era rimasto in contatto con il movimento socialista polacco, anch’esso clandestino. C’erano anche i partiti sionisti, come il Po’alei zion che si occupavano di mantenere contatti con gli altri partiti sionisti europei e le organizzazioni ebraiche europee e statunitensi.

Accanto ai partiti politici si svilupparono una serie di movimenti giovanili, in larga parte sionisti, che nel periodo tra le due guerre miravano a preparare i giovani all’emigrazione e alla vita in Palestina all’insegna dello stile di vita ebraico e che non vedevano di buon occhio il contatto dei giovani con la gioventù polacca. I principali movimenti sionisti giovanili furono: Hashomer Hatzair, Gordonia, Akiva, Dror. Tuttavia dopo l’inizio della guerra e l’occupazione della Polonia anche questi movimenti dovettero adattarsi alla clandestinità dei partiti politici e i loro dirigenti si trasferirono ad est. Diversamente dai dirigenti dei partiti politici, i leader di questi giovani ritornarono presto nella zona occupata dai tedeschi per riorganizzare i movimenti e ridare linfa ai loro interessi. Inoltre dovettero adeguarsi alle condizioni di vita del ghetto, modificando in parte i propri programmi per i giovani ebrei che ne facevano parte.

La presenza di partiti politici e di movimenti giovanili all’interno del ghetto, contribuì a mantenere attiva la vita culturale, politica e sociale dei suoi abitanti e costituì per molti un importante punto di conforto per sopravvivere alle dure condizioni di vita del ghetto[23]. L’adattamento di partiti e movimenti alla situazione di isolamento comportò un cambio della struttura interna delle organizzazioni, che cercarono in primo luogo di mantenere contatti con gli altri movimenti, non limitati alla sola Varsavia, usufruendo di “staffette” per lo scambio di informazioni, rapporti riservati, lettere. Queste attività molto rischiose vennero affidate soprattutto a ragazze ebree, perché diversamente dai maschi non esisteva un esame fisico che potesse identificarne la razza. Le staffette svolsero un ruolo molto importante, soprattutto perché costituivano una fonte informativa sulle altre realtà, utili per l’attività di stampa clandestina promossa dalle organizzazioni ebraiche dei ghetti. Allo stesso tempo fu una finestra sul mondo, una possibilità per attenuare il senso di solitudine degli abitanti del ghetto e un mezzo di condivisione.[24] Inizialmente le pubblicazioni erano rivolte ai membri del movimento, ma successivamente si estesero ad un pubblico più vasto, fornendo un aiuto morale. È opportuno sottolineare che fino alla primavera del 1942 il ghetto di Varsavia fu sostanzialmente preservato dalle violenze esterne di stampo nazista e che i movimenti poterono operare in condizioni abbastanza favorevoli, senza l’intervento violento dei tedeschi, anche se non mancarono la lotta al contrabbando e le singole uccisioni, oltre alle numerosissime morti per inedia.[25] In questa prima fase Ringelblum sintetizza in maniera estremamente chiara come appariva la vita “politica” del ghetto fino alla primavera del 1942: i giornali uscivano costantemente in un clima più o meno legale, venivano organizzate riunioni pubbliche festive, “ (…) ciascuno pensava che tutto fosse permesso. (…) La gente credeva i tedeschi fossero scarsamente interessati alle opinioni degli ebrei, che a loro interessasse solo scoprire le riserve di beni, denaro e valuta straniera. Ma a quanto pare si sbagliava. Il venerdì di sangue [18 aprile] quando furono fucilati i direttori e i distributori di numerosi giornali, dimostrò che i tedeschi non erano indifferenti all’immagine, soprattutto quella politica, che di loro avevano gli ebrei.”[26]

La relativa stabilità del ghetto venne interrotta proprio nell’aprile del 1942, quando si diede avvio alle irruzioni naziste, che raggiunsero l’apice con le violenze e le deportazioni organizzate durante l’estate. Evidentemente c’era stato un cambio di atteggiamento nei confronti degli Juden, o piuttosto, con il senno di poi, si riconosce che si era passati ad una seconda fase del trattamento degli ebrei. In ogni caso il 17/18 aprile venne organizzata una retata della Gestapo, che portò alla cattura di 60 persone, in particolare appartenenti ai gruppi dirigenti delle organizzazioni giovanili e dirigenti della stampa clandestina e all’uccisione di 52 di loro.[27]

L’ARCHIVIO DI RINGELBLUM

L’attività di stampa del ghetto non era costituita solo dalle pubblicazioni di fogli di giornale, ma anche da testimonianze individuali, diari personali, studi sulla società del ghetto, documenti che attestavano i crimini commessi dagli occupanti. Tutti questi manoscritti vennero raccolti in un archivio segreto, denominato Oyneg Shabes (la gioia del Sabbath), che veniva visto come il bastione della coscienza nazionale per il futuro dopoguerra.[28] L’ideatore o comunque il principale membro del progetto di costituzione di un archivio del ghetto di Varsavia, ma che non fu l’unico della Polonia occupata, fu lo storico ebreo polacco Emmanuel Ringelblum. Parte del lavoro di archivio portato avanti in segreto da Ringelblum e dai suoi collaboratori è stato ritrovato nel dopoguerra, grazie al lavoro di interramento dei documenti in scatole di latta ben chiuse da parte dei responsabili dell’archivio. Questi ritrovamenti sono stati fondamentali per la ricostruzione della vita del ghetto e degli avvenimenti che l’hanno scosso. L’archivio si articolò principalmente in tre momenti: una fase iniziale che ebbe inizio con lo scoppio della guerra e vide la formazione del gruppo e la ricerca dei collaboratori; una seconda fase che vide l’adeguamento alle condizioni di vita del ghetto, dove l’attività venne concentrata sulla stampa clandestina e la diffusione di notizie sull’andamento della guerra. L’ultima fase ebbe inizio nell’autunno del 1941, quando si diede avvio ad una ricerca sulla vita degli ebrei durante l’occupazione nazista. Successivamente anche l’archivio divenne un nucleo di resistenza civile, trasformandosi poi in un centro di informazioni sulla resistenza ebraica, attraverso la diffusione di informazioni all’esterno tramite i movimenti clandestini.[29] Ci sono anche le analisi sulle trasformazioni psicologiche avvenute negli abitanti del ghetto dopo la Grande deportazione dell’estate del ’42: la frustrazione per la passività dimostrata durante le precedenti deportazioni, le critiche nei confronti dello Judenrat e della polizia ebraica ed infine la determinazione a combattere, probabilmente senza speranze di vittoria, ma per la propria dignità alla prossima irruzione tedesca nel ghetto.

DIE GRÖSSE AKTION

Il ghetto di Varsavia era rimasto sostanzialmente al riparo dalle violenze esterne fino all’estate del 1942, quando venne messo in moto un programma di deportazioni di massa, conosciuto come “Die Grösse Aktion”. Precisamente le deportazioni ebbero inizio il 22 luglio, alla vigilia del 5° giorno di Av[30] del calendario ebraico e continuò con brevi interruzioni fino al 12 settembre dello stesso anno: circa 300 mila ebrei vennero espulsi, di questi 265 mila vennero prelevati dall’Umschalgplatz e inviati nel campo di sterminio di Treblinka a circa 60 km di distanza da Varsavia. Altri 11.850 vennero inviati nei campi di lavoro forzato mentre 10 mila circa vennero uccisi direttamente e nel ghetto rimasero circa 50-60 mila persone.[31] Le voci su una riduzione della popolazione del ghetto erano già state diffuse in passato, la diarista Mary Berg riporta “Corre anche la voce insistente che la popolazione del ghetto debba essere deportata in massa. Non so da dove venga la voce mostruosa che tutti ripetono (…). Senza dubbio i tedeschi stessi la fanno circolare per creare il panico”.[32]

Qualche tempo prima delle deportazioni dell’estate, le autorità tedesche organizzarono delle riprese cinematografiche nel ghetto: vennero filmate vetrine di negozi alimentari decorate con cura e venne obbligato ai commercianti di esporre merci rare e costose. Vennero inoltre filmati appartamenti ben arredati, soprattutto appartenenti ai dipendenti dello Judenrat o di persone molto ricche. Mazor, racconta inoltre che “venne ordinato al ristorante Schulz (angolo di via Karmelicka e Nowolipki) di apparecchiare i tavoli con cibi e bevande. In seguito vennero fatti entrare degli ebrei raccolti a caso nelle strade e vennero costretti a sedersi ai tavoli e mangiare. Il festino fu filmato e il ristorante ricevette l’ordine di presentare il conto allo Judenrat. (…) Pochi giorni dopo le riprese finirono e la situazione ritornò com’era in precedenza: era indubbio che i tedeschi volevano diffondere una visione falsa e tendenziosa della vita nel ghetto, presentandolo come un covo di vizi ed ingiustizia sociale.”[33]

Il 18 luglio 1942 il governatore del GG Hans Frank annunciò al suo gruppo di collaboratori che avrebbe dato l’ordine di sgomberare il ghetto di Varsavia a causa dell’aumento dei casi di febbre tifoidea.[34] Anche nel suo diario, Czerniakow accenna ai timori diffusi nel ghetto di una prossima deportazione, anche a causa delle notizie riguardanti la liquidazione dei centri di Cracovia e Lublino ai primi di giugno. Tuttavia il 19 luglio si impose la notizia dell’imminente sgombero del ghetto, smentita continuamente dai funzionari che venivano interrogati in proposito. La sera di quel giorno venne organizzata una riunione cui presero parte le figure dirigenti del ghetto, le quali cercarono di proporre delle soluzioni per impedire la liquidazione del “quartiere riservato agli ebrei”, attraverso la corruzione degli ufficiali tedeschi, oppure l’invio di un’ambasceria al governatore Frank. È opportuno ricordare che per quel momento nessuno avanzò la proposta di ribellarsi.[35] Allo stesso tempo il presidente dello Judenrat si diede da fare per verificare la validità o meno delle voci che stavano causando il panico nel ghetto, trovando solo delle smentite tra le autorità occupanti; ma il 22 luglio gli ufficiali della Gestapo gli ordinarono di emanare un manifesto ufficialmente denominato “deportazione verso Est”. Venne affidato allo Judenrat il compito di mettere a disposizione gli ebrei che dovevano essere deportati quotidianamente, la quota doveva raggiungere almeno le 6 mila persone al giorno, come si evince dal diario di Czerniakow in data 22 luglio 1942.[36]

Il manifesto prevedeva anche una lista di categorie che erano esenti dalla deportazione (Umsiedlung): i dipendenti dello Judenrat, della polizia ebraica, delle organizzazioni assistenziali e sanitarie, i degenti che non potevano essere dimessi dall’ospedale, i lavoratori delle fabbriche tedesche e le relative famiglie. I manifesti diffusi dallo Judenrat, ma dettati dall’Oberscharführer Hoefle, riportavano anche le sanzioni che sarebbero state applicate dalle autorità competenti (tedesche): tutti coloro che non appartenevano alle categorie esentate e che sarebbero stati trovati a Varsavia una volta terminate le deportazioni o tutti coloro che avrebbero contribuito ad azioni di intralcio delle deportazioni, sarebbero stati fucilati.[37]

Inizialmente infatti, la prima fase dei trasferimenti riguardò i profughi e gli abitanti dei quartieri più poveri. Iniziò quindi una vera e propria caccia ai permessi di lavoro, in migliaia si recarono nelle fabbriche per cercare lavoro, spendendo gli ultimi risparmi o scambiando oggetti preziosi, nella vana speranza che quel pezzo di carta potesse preservarli dalla deportazione. Il giorno dopo aver emanato l’ordinanza, Czerniakow espresse la propria frustrazione e amarezza di fronte all’impotenza per questa situazione, a cui si aggiungeva in particolare la preoccupazione per i bambini degli orfanotrofi e riscontrò che l’unica via di fuga era la morte: la sera del 23 luglio ingerì una pastiglia di cianuro che teneva nel cassetto.[38]

La deportazione ebbe inizio il 22 luglio alle 11 di mattina su iniziativa di un Einsatzkommando guidato dallo SS-Hauptsturmführer Herman Höfle, organizzatore degli sgomberi nel distretto di Lublino, che operò a Varsavia con l’ausilio di milizie ucraine, lettoni e della polizia ebraica.[39] La tattica di rastrellamento era relativamente semplice: in una prima fase veniva circondato un edificio e veniva intimato agli inquilini di scendere ed eventualmente di esibire il permesso di lavoro. Se ne erano in possesso erano momentaneamente esenti dalle deportazioni assieme alle loro famiglie, al contrario quanti ne erano privi, venivano caricati direttamente sui vagoni piombati e diretti a Treblinka. La versione ufficiale diffusa dai tedeschi per giustificare le deportazioni era il trasferimento verso est, in una zona adeguata alle esigenze della popolazione. Tuttavia gli ebrei pur non illudendosi di fronte alle giustificazioni dei tedeschi, non erano pienamente a conoscenza dell’intera operazione che stava per essere riservata loro una volta lasciato Varsavia, che era stata accennata loro attraverso voci indirette. Divennero ben presto consapevoli che il “trasferimento verso est” non sarebbe stato tale come era stato presentato. Racconta un sopravvissuto: “ (…) Sul piazzale da dove partivano i treni dei deportati erano scritti i numeri dei vagoni in servizio e potemmo constatare che gli stessi vagoni tornavano vuoti 12 o 14 ore dopo. Era la prova che non avevano fatto un lungo viaggio verso est. Venimmo a sapere dell’esistenza di Treblinka da un ferroviere polacco, (…) che lo aveva saputo da un parente acquisito che era riuscito a fuggire dal campo”.[40]

Se nella prima fase la polizia tedesca non aveva svolto un ruolo di primo piano, ma aveva affidato i compiti principali alla polizia ebraica[41], nella fase successiva la tattica cambiò: venivano deportati anche i familiari dei lavoratori e negli ultimi giorni di deportazione neanche il permesso di lavoro costituiva più una garanzia, perché non veniva effettuata più alcuna distinzione. Il 6 agosto vennero aggredite le istituzioni infantili del ghetto, tra cui l’orfanotrofio; tutti i 192 bambini vennero condotti al treno e il dottor Janusz Korczack, famoso pedagogo ebreo, andò con loro. Altrettanto fecero altri medici, educatori ed educatrici della dozzina di orfanotrofi presenti nel ghetto, che scelsero di rimanere accanto ai bambini loro affidati.[42] L’operazione di liquidazione del ghetto ebbe il suo momento più crudele nella notte del 6 settembre, quando iniziò l’ultima e massiccia selezione, che venne denominata “il calderone”[43]: il giorno seguente tutti gli ebrei avrebbero dovuto concentrarsi nella zona del quartiere ebraico[44] e sfilare in un corridoio formato da soldati armati di fruste e baionette. Quanti erano stati assunti come lavoratori nelle fabbriche avevano ricevuto un numero – ne vennero distribuiti 35 mila – e poterono rimanere nel ghetto; mentre quanti ne erano privi vennero diretti alle rampe ferroviarie. Un testimone racconta: “Hanno tutti in mano dei documenti, certificati di lavoro o carta d’identità. Il gendarme all’entrata vi getta un’occhiata. Rechts: la vita. Links: la morte.”[45] In questa ultima fase permessi di lavoro ed esenzioni dalle deportazioni non ebbero più il ruolo protettivo che svolsero nelle precedenti fasi, ma le scelta rispettava le volontà casuali del gendarme. La selezione durò fino al 10 settembre e dopo un giorno di pausa riprese il 12 con l’arresto della maggior parte dei membri della polizia ebraica, che vennero a loro volta deportati: ne rimasero 240 su 2 mila a guardia delle fabbriche e dei caseggiati adiacenti ad esse nei quali vennero concentrati i superstiti-lavoratori.[46]

Le cifre ufficiali parlano di 253.741 persone deportate verso Treblinka, 11.500 deportate in campi di lavoro esterni, mentre gli uccisi nel ghetto tramite armi da fuoco ammontano a 5.961 (secondo un’altra stima 10.380). Sulla base del rapporto della ZOB circa 3.500 persone sarebbero decedute per malnutrizione in quelle settimane.[47]

Rimanevano nel ghetto 35.633 persone, lavoratori delle fabbriche, di cui 15.696[48] erano donne e quanti erano riusciti a nascondersi sfuggendo ai rastrellamenti, corrispondenti a circa 10-15 mila persone, i cosiddetti “illegali”.[49] Il ghetto comprendeva ora tre settori: quello delle fabbriche Töebbels, Schultz e Roehrich, quello della fabbrica di spazzole e quello del ghetto centrale.

REAZIONI ALLA GRANDE DEPORTAZIONE: LA NASCITA DELLE ORGANIZZAZIONI COMBATTENTI EBRAICHE

Durante gli anni di vita del ghetto e per lungo tempo, fino alla scossa causata dalle deportazioni estive del 1942, il problema di una resistenza armata da parte degli ebrei di Varsavia non era stato considerato dalla maggioranza, poiché una resistenza attiva avrebbe comportato il pericolo della distruzione completa del ghetto. Alcune riunioni svoltesi nella primavera dello stesso anno per iniziativa del Bund e dei gruppi sionisti, non si concretizzarono in un’unione effettiva a causa di contrasti ideologici e problemi strategici tra il Bund ed alcuni gruppi sionisti: infatti il partito socialista ebraico sosteneva che la lotta ebraica avrebbe dovuto inserirsi nella lotta di liberazione nazionale polacca. I fatti concreti dimostrarono che le diverse correnti della resistenza polacca, in particolare l’Armja Krajowa, la resistenza nazionalista, non si dimostrarono particolarmente intenzionate a considerare gli ebrei come potenziali compagni di lotta.[50]

Le cose per il ghetto iniziarono a cambiare con l’estate del 1942: tra agosto ed ottobre i rappresentanti dei maggiori movimenti giovanili ebraici clandestini (He-chaletz, Ha-Shomer Ha-Tza’ir, Dror, Akiva) e i partiti politici come il Bund, optarono per una soluzione di resistenza militare alle eventuali deportazioni. Si incontrarono presso l’ostello del Dror in via Dzielna e diedero vita all’Organizzazione ebraica combattente (ZOB, Zydowska Organizacja Bojowa), estesa anche ad altri movimenti e partiti e preferendo un clima di assoluta segretezza.[51] All’inizio della sua esperienza, la nuova organizzazione non possedeva armi, né un piano d’azione, né contatti con il mondo esterno, in particolare con la resistenza polacca. Non esistono informazioni precise e specifiche relative alle prime azioni e alle dimensioni della ZOB, si ipotizza che fosse composta da circa duecento membri, la maggior parte dei quali riuscì a sottrarsi alle selezioni o a scappare dai vagoni piombati diretti a Treblinka.[52] È opportuno sottolineare, come ricorda Zuckerman, che fin dall’inizio l’organizzazione fu pensata per diramarsi in diverse cellule da diffondere negli altri ghetti dei territori occupati. Il movimento di resistenza, come era prevedibile non partì dallo Judenrat, che si limitò ad una politica di accondiscendenza nei confronti degli occupanti.

All’inizio di agosto giunsero nel ghetto le prime armi, cinque pistole e sei bombe a mano, provenienti dalla parte polacca di Varsavia, precisamente dall’Armja Ludowa, l’unità combattente della resistenza comunista polacca. La prima “dimostrazione di forza” che assecondava il diffuso senso di vendetta degli abitanti del ghetto, venne organizzata contro il capo della polizia ebraica, Josef Szeryniski, il cui tentativo di assassinio fallì. Successivamente vennero portate avanti azioni simboliche, limitate alla distruzione di materiali destinati alle fabbriche, ad incendi di laboratori oppure alla ricerca di informazioni sulle decisioni delle autorità locali o su quanto accadeva attorno al ghetto. Tuttavia non sempre i militanti dell’organizzazione riuscivano a scampare al controllo dei tedeschi, in particolare se venivano scoperti all’esterno del ghetto o in altri distretti. Poco dopo la nascita del movimento alcuni di loro vennero scoperti e fucilati sul posto oppure imprigionati. Dopo l’arresto e l’uccisione di alcuni importanti membri di questi movimenti, la polizia tedesca riuscì a confiscare anche le poche armi fatte entrare nel ghetto, durante un’operazione che doveva compiersi con lo spostamento delle armi da un nascondiglio all’altro[53].

Nell’ambito delle drammatiche deportazioni che investirono il ghetto nell’estate del 1942, la passività e la rassegnazione, sia di quanti erano destinati ai campi, sia di quelli che potevano restare, risultarono predominanti, nonostante i flebili tentativi dimostrativi dei movimenti giovanili. In questo senso risulta profondamente simbolica l’immagine che si trova nei rapporti dell’Organizzazione, dove gli ebrei del ghetto venivano paragonati a delle “pecore spinte al macello”. Dopo la fine delle deportazioni il 12 settembre 1942 la situazione risultava drammatica: il contrabbando era ridotto al minimo e i cosiddetti “illegali” che non potevano usufruire della zuppa che veniva distribuita nelle fabbriche, riuscivano a sopravvivere attraverso le razzie negli appartamenti abbandonati, anche se le perlustrazioni continuarono nelle settimane seguenti, nel tentativo di scovare quanti erano sfuggiti ai rastrellamenti dell’estate.

Oltre al dolore per la scomparsa di molti cari, il senso di impotenza ed il rimorso di non aver reagito invasero gli animi dei “superstiti” del ghetto e si unirono alle notizie provenienti dai campi di sterminio o dalle notizie sul destino di liquidazione totale a cui andavano incontro tutti i ghetti del Governatorato, comportando un cambio di atteggiamento dei giovani del ghetto di Varsavia. Ringelblum descrive attentamente questa situazione, accompagnandola con una profonda autocritica: “Perché non ci siamo opposti quando hanno cominciato a trasferire da Varsavia 300 mila ebrei? Perché ci siamo lasciati portare al macello come tante pecore? (…) Perché i carnefici non hanno subìto nemmeno una perdita? Com’è potuto accadere che 50 uomini delle SS con l’aiuto di un reparto di 200 guardie ucraine e altrettanti lettoni, siano riusciti a condurre a termine l’operazione senza alcun intralcio?”[54]. Era inoltre particolarmente diffusa la consapevolezza che il ghetto non avrebbe avuto alcuna possibilità di sopravvivere, neppure parzialmente.[55]

Nonostante le numerose difficoltà la vita riprese lentamente nel ghetto, che era diventato propriamente un campo di lavoro, contenente principalmente i laboratori di Walter C. Többels e di K. G. Schültz e le fabbriche di spazzole. Non stupisce quindi che la maggior parte della popolazione rimasta nel ghetto e ufficialmente registrata appartenesse alla fascia di età compresa tra i 20 e i 39 anni.[56] Secondo un’ordinanza di Himmler del 28 ottobre 1942 i gruppi di ebrei rimasti nel Governatorato Generale dovevano essere concentrati in Wohnbezirke adiacenti alle fabbriche, sottoposti al controllo delle SS e la loro temporanea utilità in quanto forza lavoro gratuita era motivata dalle necessità belliche del Reich. Si diede quindi avvio alla fase finale della vita di queste comunità costrette a vivere in ghetti, dove era scomparsa ogni parvenza di vita sociale.

IL MOVIMENTO DI RESISTENZA

Dopo la fine della prima ondata di deportazioni, l’Organizzazione fondata dai gruppi giovanili e dai partiti politici iniziò ad operare nuovamente in diverse condizioni: la scomparsa della classe dirigente del ghetto, il crollo della legittimità dello Judenrat ora guidato dall’ingegnere Lichtenboim ed il ritorno di alcuni importanti attivisti dei movimenti, in particolare Mordechai Anielewicz che svolse un ruolo di leader energico, diede nuova linfa all’organismo militante, che decise di riorganizzarsi e di estendersi in maniera capillare. Altri movimenti e altri partiti politici del ghetto si aggregarono progressivamente alla cellula iniziale, creando un unico fronte di resistenza con l’obiettivo della lotta armata, ma la sua attuazione pratica avvenne per gradi e non senza contrasti. Inizialmente vennero creati degli organismi istituzionali all’interno del ghetto per dare una linea politica all’Organizzazione, come era avvenuto nei gruppi della resistenza polacca. Tuttavia l’eterogeneità e le opposte opinioni dei gruppi politici che si univano in un unico fronte, provocarono non poche discussioni in relazione alla linea politica da adottare. Infatti è possibile riscontrare come la ZOB vera e propria nacque sulla base di formazioni partitiche: le diverse forze in gioco, come accennato, appartenevano principalmente al partito socialista ebraico (Bund, anticomunista e antisionista che aveva rapporti con il PPS polacco), al Partito socialista sionista (Po’alei Zion), ai movimenti sionisti di destra e di sinistra ed agli ebrei comunisti che facevano riferimento a Mosca (PPR), ma che non avevano un vero e proprio partito. Venne istituita una Commissione ebraica nazionale (ZKN) come struttura politica del movimento clandestino del ghetto, che comprendeva gli esponenti dei partiti politici e dei movimenti giovanili, ma alla quale non vollero unirsi i bundisti, per via della presenza dei sionisti politici. Si pensò quindi di creare una terza struttura: il Comitato di Coordinamento (KK), formato dai rappresentanti del Bund e da alcuni rappresentanti della ZKN, a cui era affidato il compito di organizzare i contatti con la resistenza polacca[57]. Alla fine di ottobre del 1942 l’Organizzazione Combattente Ebraica aveva già organizzato la sua struttura istituzionale: era l’evoluzione di quella frangia combattente che era nata all’interno dei movimenti giovanili durante il periodo delle espulsioni, ma era stata rinnovata in senso istituzionale e di leadership.

Rimasero fuori da questa organizzazione due grandi forze politiche: gli ebrei ortodossi dell’Agudah che non avevano combattenti, perché erano sostanzialmente contrari alla lotta armata e gli ebrei nazionalisti del Partito sionista revisionista. Il movimento giovanile di questo partito (Betar), aveva dato vita ad un’organizzazione combattente separata: l’Unione combattente ebraica (ZZW, Zydowski Zwiazek Wojskowy). Tuttavia comprendeva anche persone non legate a partiti[58] ed era organizzata in tre gruppi di battaglia guidati da Pawel Frankiel. Il motivo per cui il gruppo dei revisionisti rimase staccato dalla ZOB è stato oggetto di numerose interpretazioni, diverse a seconda delle opposte parti: gli ambienti vicini ai revisionisti accusarono la ZOB di non aver voluto incorporare l’intero movimento, preferendo l’adesione individuale. Diversa la versione dei capi dell’Organizzazione, secondo i quali ci furono delle trattative con i membri del Betar, ma che non condussero ad una coesione in un organismo combattente comune, per via del disaccordo sulle tattiche da adottare e poiché il Betar insisteva per il mantenimento di contatti esclusivi con i polacchi. Entrambe le parti concordano nel riconoscere la pretesa di comando totale dei militanti del ZZW, inaccettabile per la leadership della ZOB[59]. Tuttavia il gruppo combattente del Betar riuscì a stabilire contatti con una branca secondaria della resistenza polacca: secondo colui che si è definito l’esponente principale del movimento, tale Wdowinski, la ZZW era composta da 300 combattenti, mentre le fonti polacche ne dimezzano il numero, descrivendoli però come ebrei ben armati e pronti a tutto.[60]

Stando ad un comunicato dell’Organizzazione risalente al 1944, il comando militare della ZOB era affidato a Mordechai Anielewicz, Zuckerman (Cukierman) era il vice-comandante e addetto alle armi e alle munizioni, Marech Edelman e Jochanan Morgenstern addetti al servizio informazioni, Hirsch Beluski, progettazione. Tuttavia poiché il ghetto in seguito alle deportazioni era diviso in vari settori isolati, la ZOB dovette adattarsi, in particolare sulla base delle fabbriche che costituivano gli unici luoghi dove gli ebrei potevano essere ancora presenti a Varsavia.

Per entrambe le organizzazioni militanti (ZOB e ZZW), l’immediata necessità era costituita dalla raccolta di finanziamenti per poter comprare cibo e armi, ovviamente al mercato nero attraverso il contrabbando. La fonte principale era costituita da un sistema di “espropriazioni” che consisteva in offerte degli ebrei benestanti e dello Judenrat.[61] Tuttavia il problema delle armi era prioritario: il ghetto non ne era fornito, quindi si rendeva necessario individuare un tramite che potesse far entrare armi nel ghetto, che venne individuato prima nel governo in esilio a Londra, senza risultati e poi nella resistenza polacca.

Tuttavia dopo aver ottenuto dai partigiani comunisti della Guardia Popolare alcuni revolver, l’Organizzazione iniziò subito a stabilire a grandi linee un programma di azione, riconoscendo come prioritaria la necessità di neutralizzare gli ebrei che collaboravano con i tedeschi, in particolare contro la polizia ebraica.[62] Il 29 ottobre 1942 la ZOB si pronunciò per la condanna a morte del vice comandante della polizia ebraica Jacob Lejkin. Lo stesso destino venne riservato ad un funzionario dello Judenrat che era stato un confidente della polizia tedesca nel ghetto durante le deportazioni: Yisrael First. Altre spedizioni punitive vennero organizzate contro personalità ebree che avevano avuto atteggiamenti particolarmente violenti nei confronti dei loro simili durante le deportazioni. Si lavorò anche per costituire delle misure di difesa e con la scusa di predisporre dei ripari per le incursioni aeree, gli ebrei costruirono centinaia di rifugi ancora durante l’ondata estiva di deportazioni, alcuni dei quali erano collegati alla rete fognaria.[63]

Nel frattempo alcuni rappresentati del gruppo militante vennero mandati nella parte ariana di Varsavia per portare avanti i contatti con la resistenza polacca, già organizzati dai movimenti clandestini del ghetto, in particolare dal Bund. Infatti dal febbraio del 1942 nella struttura della resistenza polacca (Armja Krajowa, AK) venne attivato un dipartimento per le questioni ebraiche, con a capo l’avvocato Henryk Wolinski. I contatti veri e propri avvennero concretamente dopo le deportazioni dell’estate 1942, perché non sono attestati interventi della resistenza polacca per fermare le deportazioni, né a Varsavia, né nella Polonia occupata. Il rapporto tra i combattenti del ghetto e la resistenza polacca è stato oggetto di scontri e dibattiti piuttosto accesi, in particolare per l’aiuto circoscritto offerto dalla popolazione polacca, soprattutto dall’Armja Krajowa. Nonostante la scarsità della documentazione oggettiva, le ambigue e controverse giustificazioni addotte dai polacchi nel dopoguerra e le aspre accuse mosse contro di loro dal governo israeliano e dall’opinione pubblica ebraica negli anni successivi, va sottolineato, non certo come giustificazione, che la resistenza polacca in quegli anni era ancora agli inizi e non votata ad una particolare resistenza attiva. Questo dato si comprende considerando che la prima ed unica dimostrazione di forza della resistenza polacca avvenne tra l’estate e l’autunno del 1944, quando l’Armata Rossa aveva quasi raggiunto la città. Sembra però che il motivo principale della relativa “indifferenza” dei polacchi fosse la volontà di proteggere la nazione dalla distruzione, che sarebbe stata compromessa se fosse stato portato avanti un esplicito aiuto in termini di interventismo nei confronti degli ebrei del ghetto.[64] In ogni caso bisogna aggiungere la tendenza relativamente antisemita della popolazione polacca ed in particolare del principale gruppo di resistenza quale l’Armja Krajowa. Nell’ampio panorama delle controverse giustificazioni, alcuni sostengono che la resistenza polacca fu diffidente sul tema della concessione di armi agli ebrei del ghetto, nella convinzione che sarebbero andate sprecate; altri testimoni, come Ringelblum hanno attestato un aiuto cospicuo in termini di armi da parte della resistenza polacca.[65] Di fronte alla complessità della questione non è però possibile generalizzare, né è possibile dimenticare l’aiuto, seppur relativo, di queste frange di resistenza o di singole personalità del mondo polacco nei confronti degli ebrei del ghetto. In particolare Wolinski svolse un ruolo importante nel panorama delle relazioni tra i militanti della ZOB e quelli appartenenti ai partigiani polacchi: fece il possibile per introdurre l’organizzazione combattente ebraica ai capi della resistenza polacca e si prestò con altrettanto impegno per fornire armi al ghetto. Inoltre il suo dipartimento attivò, nell’autunno del 1942 una cellula (Zegota) a cui venne affidato il compito di salvare gli ebrei che vivevano tra i polacchi e che costituì un’importante forma di ancoraggio per quanti ne ricevettero aiuto.[66]

L’ATTIVISMO

Dopo un clima di relativa tranquillità rispetto a quanto accaduto durante l’estate, nel gennaio 1943 i tedeschi ripresero a sorpresa le deportazioni dal ghetto. La consapevolezza che la fine del ghetto fosse vicina aleggiava tra gli ebrei che erano rimasti, rinvigorita dalle notizie che giungevano dai campi relative alle sparizioni degli ebrei e alla liquidazione dei ghetti del governatorato. Le sensazioni presenti tra gli ebrei rinchiusi a Varsavia sono attestate in modo esplicito dalle numerose testimonianze che ne sono scaturite.

Nel gennaio del 1943 Himmler, visitando il ghetto di Varsavia, constatò che non erano stati rispettati gli ordini che aveva emanato in precedenza relativamente alle riduzioni dei ghetti e dei loro abitanti. Apprese infatti che nel ghetto rimanevano ancora troppi ebrei non tutti indispensabili dal punto di vista economico[67], lamentandosi con il capo della polizia e delle SS di Cracovia Krüger, in una lettera datata 11 gennaio 1943. Sembra quindi che le autorità locali non abbiano informato il comandante che a Varsavia rimanevano più di 55 mila ebrei, ovvero il 10% di quanto era consentito. Himmler ordinò quindi l’immediata deportazione di 8 mila persone, pensando di risparmiare una piccola parte della popolazione restante per i campi di lavoro[68]. Il 18 gennaio si procedette ad un ulteriore deportazione della popolazione del ghetto che avrebbe dovuto interessare 24 mila persone, ma comunque non sembra che la liquidazione del ghetto fosse lo scopo immediato.

Marek Edelman, attivista dell’Organizzazione racconta che alla fine di dicembre ricevettero dieci revolver dall’AK (Armata Krajowa) e che era stata progettata un’azione dimostrativa contro la polizia ebraica per il 22 gennaio 1943.[69] Tuttavia la mattina del 18 entrarono nel ghetto alcune centinaia di miliziani ucraini e poliziotti tedeschi ben armati per portare a compimento gli ordini di Himmler. Quanti si erano recati a lavorare nelle fabbriche vennero prelevati e condotti all’Umschlagplatz, mentre la maggior parte della popolazione rimasta nel ghetto riuscì a rifugiarsi nei nascondigli preparati nei mesi precedenti, aderendo alla propaganda dell’Organizzazione. Tuttavia l’effetto sorpresa che accompagnò l’espulsione di gennaio non permise all’Organizzazione combattente di coordinare al meglio un’azione di resistenza compatta, pertanto le compagnie armate agirono individualmente. La prima vera battaglia venne organizzata dal comandante Mordechai Anielewicz, che elaborò un piano d’azione relativamente semplice: scelse dodici attivisti armati, li fece unire alle colonne di ebrei diretti all’Umschlagplatz, i quali allo scatenarsi del segnale avrebbero dovuto attaccare i soldati tedeschi. Lo scontro avvenne all’angolo tra via Mila e via Zamenhof nei pressi dell’Umschlagplatz, ma i rivoltosi si ritrovarono in posizione di minoranza per numero e per la limitata disponibilità di armi e munizioni, mentre i tedeschi erano armati pesantemente.[70] Inoltre i rinforzi tedeschi arrivarono subito e la maggior parte dei combattenti di quell’azione venne uccisa, ma riuscirono a colpire a morte il primo tedesco all’interno del ghetto. Dal risultato di questa prima azione si giunse alla consapevolezza che la tattica adottata necessitava di miglioramenti. Pertanto gli altri focolai di resistenza si organizzarono diversamente, sulla base di una tattica pressoché di stampo difensivo: avvennero quattro importanti combattimenti negli edifici delle vie principali, da ricordare quello di via Zamenhof n. 40, dove alcuni militanti guidati da Zuckerman si rinchiusero in un appartamento e al momento della perquisizione dell’edificio scatenarono il fuoco, ferendo due tedeschi. Nel frattempo i partigiani che si trovavano nelle fabbriche attaccarono le SS, mentre altri cercarono di ribellarsi ai tedeschi al momento della cattura, ma quasi tutti trovarono la morte o la deportazione. La diversa reazione del ghetto ebbe un eco considerevole, poiché nonostante la resistenza sia stata debole e le perdite ebree considerevoli, si è trattato di un’iniziativa inattesa che ha costretto i tedeschi a difendersi e ad interrompere la razzia e ha dimostrato all’Armja Krajowa che i partigiani ebrei facevano sul serio.[71]

Dal punto di vista ebraico questi eventi risultarono particolarmente significativi anche perché attestano il cambiamento psicologico avvenuto tra la popolazione del ghetto rispetto al periodo delle deportazioni dell’estate del 1942. Fondamentale fu anche la sorpresa che invase i tedeschi, che presero coscienza del pericolo che potevano incontrare nel ghetto.

Come osserva Gutman “non si può comprendere pienamente come mutò l’atteggiamento della popolazione ebraica se non si tiene conto dell’impressione destata dagli avvenimenti del gennaio 1943. Gli ebrei non erano più passivi, sapevano reagire combattendo”.[72] Riportando invece le parole di Zuckerman “la rivolta di gennaio rese possibile la ribellione di aprile”, si giunge alla consapevolezza che in effetti l’atteggiamento di sostanziale sconforto e passività che aveva caratterizzato le deportazioni dell’estate del 1942, venne sostituito da una rinnovata volontà del ghetto nelle possibilità di resistere, non tanto nella consapevolezza che potesse sfociare in una vittoria contro la superiore forza militare tedesca, ma almeno un’opposizione per difendere la propria dignità. Se in precedenza la popolazione del ghetto aveva valutato negativamente l’opzione di resistere, poiché avrebbe potuto comportare il rischio di uccidere anche gli ultimi ebrei rimasti, ora era diventata l’unica soluzione per potersi salvare o eventualmente morire con dignità.

L’espulsione di gennaio terminò dopo quattro giorni, ma fin dal secondo i tedeschi dovettero fare sforzi enormi per catturare gli ebrei: riuscirono a deportare o uccidere circa 5000-6000 persone e l’ultimo giorno fu caratterizzato soprattutto da azioni di rappresaglia, che comportarono fucilazioni a caso contro tutti gli ebrei che venivano trovati nelle strade. A quest’azione presero parte circa duecento poliziotti tedeschi e ottocento forze ausiliarie ucraine e lettoni. Le perdite degli occupanti non possono essere ricostruite con sicurezza, le fonti polacche parlano di una dozzina, ma il numero sembra eccessivamente alto.[73] Il colonnello delle SS Ferdinand von Sammern-Frankenegg non informò i suoi superiori della morte e del ferimento di alcuni dei suoi soldati in seguito alle azioni di resistenza del ghetto.

Non si può dichiarare con estrema certezza il motivo per cui l’espulsione ebbe una durata così breve. Si ipotizza che lo scopo delle misure di gennaio non sia stato la liquidazione dell’intero ghetto di Varsavia, ma che sia motivato dalla volontà di seguire le raccomandazioni di Himmler, che si lamentava dell’eccessiva popolosità del ghetto.

I PREPARATIVI

Il 16 febbraio Himmler inviò a Krüger le seguenti disposizioni relative al ghetto di Varsavia:

“Per ragioni di sicurezza le ordino di distruggere il ghetto di Varsavia dopo aver trasferito da là il campo di concentramento. Al tempo stesso tutte le parti di costruzioni e i materiali di ogni genere riutilizzabile devono venir preservati. La distruzione del ghetto e il trasferimento del campo di concentramento sono indispensabili perché altrimenti non riusciremmo a ridurre Varsavia alla calma e finché esisterà il ghetto sarà impossibile eliminare la criminalità. Un piano generale per la distruzione del ghetto dovrebbe venirmi sottoposto; in ogni caso, dobbiamo arrivare a una situazione in cui l’area residenziale, che costa attualmente 500.000 Untermenschen e che è sempre stata sconveniente per i tedeschi, sparirà e la città di Varsavia, col suo milione di abitanti, da sempre un centro di agitazione e di ribellione, dovrebbe ridursi di dimensioni”[74].

Dopo gli scontri di gennaio Himmler diede comunque l’ordine di separare gli abitanti dai lavoratori delle sedici fabbriche tedesche situate nel ghetto, che dovevano essere trasferiti nei campi di lavoro. Walter Többens, imprenditore tedesco di alcune di queste fabbriche, venne incaricato di organizzare il trasferimento degli stabilimenti e dei lavoratori, da collocare nella zona di Lublino nella Polonia sud-orientale. All’inizio di marzo del 1943 l’imprenditore annunciò il trasferimento di alcuni laboratori industriali, ma alla prima chiamata solo 280 su 1600 operai di presentarono alla partenza. Allo stesso modo il tentativo di trasferire i lavoratori della zona della fabbrica di spazzole fallì: di 3600 se ne presentarono solo 30.[75] Alla metà di marzo riuscirono a trasferire dei lavoratori e i relativi laboratori nei campi di Poniatowa e Trawniki (Lublino) e alcuni dirigenti ebrei che ritornarono nel ghetto confermarono che effettivamente non si era trattato di una deportazione, ma di un trasferimento di fabbriche e lavoratori. Tuttavia la ZOB non condivideva il punto di vista dell’imprenditore e cercò di persuadere gli ebrei del ghetto a non partecipare volontariamente ai trasferimenti, iniziando una vera e propria diatriba con Többels, attraverso la diffusione di slogan diffamatori.[76]

Nel frattempo i militanti della ZOB concretizzavano l’idea di una resistenza più organizzata: procedettero con la costruzione di rifugi, nascondigli e gallerie e con la creazione delle condizioni per poter vivere in clandestinità. Sul piano interno vennero definiti i piani strategici e allo stesso tempo vennero organizzati i combattenti in squadre addestrate in un clima di allenamento paramilitare, poiché erano consapevoli che la resistenza di gennaio non aveva persuaso i tedeschi a portare a termine la distruzione del ghetto. Inoltre i futuri combattenti dovevano essere preparati ad ogni evenienza, perché sarebbe stato il nemico a stabilire la data dello scontro. Alcune fonti riconoscono che molto tempo era dedicato alle discussioni su tematiche di carattere politico, sociale e culturale.

Stando al rapporto della ZOB gli effettivi erano organizzati in 22 gruppi di combattimento composti dai membri dei movimenti giovanili, sia uomini che donne per un’età compresa tra i 18 e i 25 anni[77]: veniva infatti mantenuta la suddivisione dei movimenti giovanili e dei partiti, in funzione del mantenimento di una maggiore coesione tra i militanti. Ogni gruppo era distribuito in diversi quartieri del ghetto e ognuno sottoposto a diversi comandi, gestiti dal gruppo dirigente della ZOB. Il quartiere generale era situato nel ghetto centrale, dove erano concentrati nove gruppi di combattimento comandati da Israel Kanal; nella zona dei laboratori, nei pressi delle fabbriche Többels e Schultz, Ytzhak Zuckerman aveva il comando di otto gruppi militari, mentre attorno alla zona delle fabbrica di spazzole vennero concentrati cinque squadroni sottoposti alla guida di Marek Edelman. Come accennato, nei mesi precedenti, erano state costituite forze indipendenti dalla ZOB, come il caso dei revisionisti del Betar, che avevano dato vita alla ZZW, che contava tre gruppi di combattimento. Vanno aggiunti alcuni polacchi che agirono all’interno del ghetto e i partigiani locali che agivano dall’esterno e contribuirono al trasferimento di armi nel ghetto. La somma dei militanti della ZOB e dei nuclei indipendenti raggiungeva il totale di circa 750 effettivi, 500 della ZOB e il restante della ZZW e dei gruppi indipendenti.[78]

In questi mesi, i comandanti in capo delle diverse suddivisioni paramilitari, giunsero alla consapevolezza che avrebbero dovuto basare la loro forza sullo spiegamento di forze in molte località, sull’ottima conoscenza della zona, sull’effetto sorpresa e sulla fitta rete di nascondigli, passaggi, postazioni; tutti questi elementi vennero desunti dalla recente esperienza militare del gennaio 1943. Vennero inoltre organizzate una serie di azioni “terroristiche” nei confronti dei trasferimenti di laboratori e materiali delle fabbriche dal ghetto alla zona designata nei pressi di Lublino. È utile sottolineare che la strategia della ZOB non prevedeva in alcun piano la ritirata, ma non si tratta di un caso e nemmeno di un tentativo di presentarsi come degli eroi. In questo senso si differenziarono dall’organizzazione ebraica combattente di Vilna, che elaborò una via di fuga per poter continuare la lotta nella parte polacca, e a quanto sembra anche dalla ZZW. In quest’ultimo caso non sono possibili dei paragoni vista la mancanza di documenti in merito[79].

L’ARSENALE

Nei mesi di preparazione le organizzazioni militanti del ghetto cercarono di procurarsi un maggior numero di armi attraverso il contrabbando e i contatti con la resistenza polacca, costituita dall’Arma Krajowa (AK), orientata verso il governo in esilio a Londra e la Gwardia Ludowa di orientamento comunista. I rapporti più stretti erano stati impostati con l’AK, che rimaneva scettica di fronte alla possibilità di portare aiuto alle organizzazioni ebraiche di Varsavia, ritenute troppo inesperte. Anche se lo scontro di gennaio aveva cambiato alcune cose, ritenevano che la resistenza polacca non era ancora in grado di sostenere una battaglia che coinvolgesse l’intera Varsavia. Contribuì comunque con un apporto minimo inviando 50 pistole, granate a mano ed esplosivi.[80] I comunisti della Guardia Ludowa invece promisero alla ZOB 28 fucili, che non raggiunsero mai il ghetto per l’impossibilità di farli entrare, poiché la ZOB non aveva costruito tunnel per scappare dal ghetto, né il negoziatore era a conoscenza del passaggio attraverso il sistema fognario.

Come arsenale bellico la ZOB e la ZZW avevano quindi armi a mano: circa 2000 bottiglie incendiarie fabbricate in casa (Molotov), granate, esplosivi e mine; un centinaio di fucili e carabine, altrettante pistole o rivoltelle, tre mitragliatrici, maschere antigas, caschi e uniformi tedesche. Stando a queste informazioni non si può parlare di una vera e propria forza militare per descrivere le organizzazioni combattenti ebraiche, dovuto sia alla scarsità di arsenale che avevano a disposizione, sia alla limitatezza di combattenti effettivi. Dal lungo rapporto del generale Stroop[81] emerge che le forze impiegate comprendevano dai 2000 ai 3000 soldati tedeschi e ausiliari ucraini con un armamento di gran lunga più completo e potente rispetto ai combattenti del ghetto.[82]

LA FINE

In aprile iniziò a circolare la voce che la liquidazione del ghetto di Varsavia sarebbe stata imminente e così avvenne il 19 aprile alla vigilia di Pesach, la pasqua ebraica. Il capo delle SS e della polizia del distretto di Varsavia Oberführer von Sammern-Frankenegg non si aspettava particolari difficoltà dell’azione, ma era consapevole che ci sarebbe stato uno scontro, poiché aveva disposto una concentrazione di truppe maggiore rispetto alle azioni precedenti. Probabilmente Himmler non si fidava ciecamente di von Sammern, perché fece convocare a Cracovia il generale Jürgen Stroop, che era stato responsabile delle SS e della polizia del distretto della Galizia e lo inviò a Varsavia in aiuto di von Sammern, che venne subito destituito e il comando della Grosseaktion[83] affidato al generale Stroop. In effetti la principale fonte relativa alla vera e propria “rivolta di Varsavia” è costituita dal minuzioso rapporto redatto dal generale Stroop per i propri superiori sugli avvenimenti della battaglia, indicati giorno per giorno. Il titolo del rapporto finale, ha un profondo significato simbolico e riassume in poche parole la soluzione tedesca alla rivolta: “Es gibt keinen jüdischen Wohnbezirk in Warschau mehr!”

Alle ore 3 della notte tra il 18 e il 19 aprile von Sammern ordinò alle truppe tedesche di circondare il ghetto e di fare irruzione da via Zamenhof alle ore 6. All’entrata nel ghetto trovarono la città deserta e vennero sorpresi dal fuoco incrociato dei combattenti ebrei nascosti nelle loro postazioni. In seguito all’effetto sorpresa i tedeschi dovettero ritirarsi verso le 7.30, comportando la sostituzione di von Sammern con quella di Stroop. Sotto la sua guida i combattimenti ripresero immediatamente e lo scontro più importante della giornata avvenne all’incrocio tra via Mila e via Zamenhof, ma alla fine della giornata i tedeschi furono costretti a ritirarsi. Contemporaneamente scoppiano altri focolai di insurrezione in diverse zone del ghetto.[84] Il bilancio del primo giorno di combattimenti era evidentemente favorevole ai gruppi paramilitari del ghetto: i tedeschi avevano avuto più perdite (un morto e trentadue feriti), erano stati costretti a ritirarsi perché non erano abituati al combattimento nelle strade, ma soprattutto non erano stati in grado di catturare la quantità prefissata di ebrei. L’obiettivo dell’operazione era infatti la cattura di tutti gli ebrei del ghetto, il trasferimento di 16 mila di loro nei campi di lavoro e portare quindi a termine l’eliminazione del ghetto in tre giorni.[85]

Il giorno successivo ripresero gli scontri nella zona della fabbrica di spazzole nei pressi del ghetto centrale, dove erano situati cinque gruppi di combattimento della ZOB e un reparto del ZZW. L’istruzione iniziale di Himmler di non danneggiare i laboratori, non venne mantenuta perché proprio in via Leszno si concentrarono numerosi focolai di insurrezione, che impedivano il passaggio dei mezzi pesanti e dei carri armati unicamente sullo spazio stradale. La tattica iniziale dei primi giorni, che prevedeva operazioni di attacco e difesa da postazioni fisse, lasciò lo spazio alle attività di guerriglia, dove era richiesta una maggiore mobilità per poter sfuggire all’avanzamento dei tedeschi. I combattenti ebrei si resero inoltre conto della necessità di avere a disposizione bombe, mitragliatrici ed esplosivi per questo tipo di scontri.[86] Dal 22 aprile infatti Stroop iniziò una vera e propria “lotta ai rifugi”: nel tentativo di stanare gli ebrei nascosti nei numerosissimi rifugi, che era l’obiettivo principale delle operazioni, ordinò ai propri soldati di incendiare gli edifici. Il giorno successivo convinto che l’insurrezione fosse terminata Stroop suddivise il ghetto in 24 settori e affidò ogni zona ad un reparto specifico, con il compito di rastrellarli. Queste operazioni incontrarono la resistenza degli ebrei e questo comportò una radicalizzazione delle tattiche di incursione tedesca nel ghetto. Il 25 aprile Stroop emanò il seguente ordine: “Ulteriore rastrellamento di tutti gli ebrei del ghetto, localizzare i rifugi, farli saltare e catturare gli ebrei. Se c’è opposizione o è impossibile raggiungere il rifugio, incendiare l’edificio”. Oltre alla tattica degli incendi diede l’ordine di gettare gas asfissianti (Stroop parla di razzi fumogeni) negli edifici per scovare i nascondigli e nel sistema delle reti fognarie per far uscire i rifugiati. In questo modo rese possibile la cattura di un alto numero di ebrei che da giorni erano nascosti nei ripari; al 26 aprile ne stimava la cattura di 30 mila. Nel frattempo continuavano gli scontri nelle zone più calde del ghetto tra i combattenti ebrei e i reggimenti tedeschi ed ucraini.

Dall’inizio di maggio Stroop testimonia che le operazioni erano ora maggiormente orientate all’eliminazione dei rifugi dei combattenti per poter così fermare la resistenza ebraica. Per raggiungere questo scopo e per rastrellare tutti gli ebrei che sarebbero stati trovati, iniziò a muovere delle pattuglie di notte, consapevole che gli spostamenti nel ghetto avvenivano in notturna. Un evento importante si registrò l’8 maggio, quando venne assediato e distrutto il quartiere generale della ZOB in via Mila, 80.[87] Nonostante la distruzione del rifugio e l’uccisione di alcune importanti personalità dell’organizzazione, come il comandante Mordechai Anielewicz, gli scontri continuarono violentemente per una settimana, finché il 15 maggio Stroop diffuse un comunicato nel quale dichiarava che avrebbe portato a termine la Grosseaktion la sera del 16 maggio, facendo saltare la sinagoga, non compresa nel perimetro del ghetto. In effetti alle 20.15 del 16 maggio Stroop fece saltare in aria la sinagoga Tłomackie, simbolo dell’ebraismo varsaviano, per indicare che la battaglia contro il ghetto era terminata. Nonostante la sopraffazione della macchina militare tedesca sui combattenti del ghetto, nei giorni successivi gruppi di ebrei nascosti tra le macerie continuarono a combattere e ad organizzare sporadiche operazioni di guerriglia contro i reggimenti tedeschi incaricati di rastrellare gli ebrei che erano rimasti ancora vivi, ma ormai il ghetto era stato distrutto.

Dopo aver neutralizzato la resistenza armata, Stroop doveva portare a termine altri due obiettivi del piano relativo al “quartiere residenziale ebraico” di Varsavia: secondo l’ordine emesso da Himmler, la zona del ghetto doveva essere rasa al suolo per poi essere sostituita da un grande parco. Il secondo obiettivo da raggiungere riguardava la cattura dei 5000-6000 ebrei che erano riusciti a scappare dal ghetto durante gli scontri.

Facendo riferimento al rapporto di Stroop, la cui attendibilità è stata confermata, è stata attestata la cattura di 56.065 ebrei, dei quali 7 mila sono stati eliminati sul posto, 13.929 annientati durante il trasporto a Treblinka, tra i 5 e i 6 mila ebrei sono morti per i bombardamenti e gli incendi e sono stati scovati e distrutti 631 rifugi. Il ghetto venne totalmente distrutto, eccetto otto edifici, tra cui la sede della polizia, il carcere, l’ospedale, gli alloggi delle guardie della fabbrica. Stroop stimò inoltre che dalle rovine era possibile recuperare un enorme quantità di mattoni e di ferro, oltre a parte dell’arsenale confiscato ai combattenti.

CONCLUSIONE

Il tema della resistenza delle comunità ebraiche nei confronti dei soprusi e del tentativo di sterminio da parte dei rappresentanti nazionalsocialisti durante la seconda Guerra mondiale, è una delle tematiche maggiormente discusse sul piano storiografico, ma non solo. È evidente che dopo la fondazione dello stato d’Israele, che si presentava come l’erede di quell’ebraismo europeo parzialmente distrutto dalla follia nazionalsocialista, si portò avanti un programma di esaltazione della memoria e degli eroi di quel fenomeno di distruzione conosciuto come l’Olocausto. In questo contesto la rivolta avvenuta nel ghetto di Varsavia è stata elevata a simbolo della concreta resistenza ebraica, anche nel tentativo di sfatare il mito, sempre considerato in termini negativi, della sostanziale passività del popolo ebraico. Tuttavia, nonostante gli enormi riflettori che sono stati puntati sulla rivolta del ghetto di Varsavia, è opportuno sottolineare che non si è trattato di un fenomeno totalmente isolato, ma sono stati riscontrati altri esempi di resistenza ognuno con un modo proprio, sia negli altri ghetti del Governatorato, sia nei campi di sterminio e di concentramento. Non è quindi sbagliato riconoscere nell’autodifesa degli ebrei del ghetto di Varsavia un’importanza degna di essere riconosciuta ed in questo senso le parole del comandante Anielewicz risultano significative: “Il sogno della mia vita è ormai realizzato. L’autodifesa ebraica è ormai un fatto compiuto.”[88]


[1] MAZOR 1998, 7; CORNI 2001, 53; GUTMAN 1996, 12 li stima a 375 mila.

[2] 28 settembre 1939.

[3] CORNI 2001, 76.

[4] GUTMAN 1996, 51.

[5] GUTMAN 1996, 65.

[6] CORNI 2001, 82.

[7] CORNI 2001, 83.

[8] Alcune sentinelle tedesche poste a guardia delle entrate lo chiamavano anche “Todeskaetschen”, ovvero piccolo scrigno della morte; MAZOR 1998, 33.

[9]  CZERNIAKOW 1998, 121 in data 12 ottobre 1940.

[10] GUTMAN 1996, 68.

[11] MALVEZZI 1970, 8.

[12] Va sottolineato che lo scopo tedesco era quello di creare un ghetto che non potesse comunicare con l’esterno e viceversa, ma in realtà era quasi impossibile da mettere in pratica: lo scambio di informazioni, di oggetti, cibo, altro materiale, nonostante la concreta difficoltà, è attestato in ogni ghetto del governatorato.

[13] CORNI 2001, 83.

[14] GUTMAN 1996, 68.

[15] Va sottolineato che l’area di residenza ebraica venne progressivamente ridotta nel corso degli anni di vita del ghetto di Varsavia.

[16] GUTMAN 1996, 69 (Versione inglese, p. 82).

[17] EDELMAN, KRALL 1993, 32; 169.

[18] MAZOR 1998, 32 n. 7.

[19] CORNI 2001, 101.

[20] CORNI 2001, 98.

[21] RINGELBLUM 1965, 179; 289: “Si sta costituendo una nuova squadra di polizia ebraica (…), il suo compito sarà di vigilare le mura del ghetto e di impedire il contrabbando. Hanno già cominciato a verniciare sulle mura del ghetto numeri enormi. A ciascuna guardia sarà assegnata la sorveglianza di una determinata zona numerata”.

[22] CORNI 2001, 103.

[23] MALVEZZI 1970, 45.

[24] MALVEZZI 1970, 52.

[25] Vengono sottintese in questo caso le condizioni di vita in cui la maggior parte degli ebrei era costretta a vivere, in una situazione di miseria, difficoltà e sofferenza.

[26] GUTMAN 1996, 66 dal diario di Ringelblum.

[27] EDELMAN KRALL 1993, 44-46.

[28] KASSOW 2009, 237.

[29] KASSOW, 2009, 238.

[30] Giorno in cui gli ebrei piangono la distruzione del primo e del secondo tempio di Gerusalemme e la fine della loro indipendenza politica nell’antichità.

[31] GUTMAN 1996, 103.

[32] BERG 1991, 166 (5 luglio 1942).

[33] MAZOR 1998, 133.

[34] CORNI 2001, 404.

[35] CORNI 2001, 405.

[36] CORNI 2001, 405; GUTMAN 1996, 103.

[37] MAZOR 1998, p. 148.

[38] GUTMAN 1996, 104.

[39] CORNI 2001, 406.

[40] MAZOR 1998, 137-138.

[41] Successivamente quando non si riusciva più a raggiungere la quota giornaliera venne imposto ad ogni poliziotto di portare all’Umschlagplatz almeno cinque persone, se il numero non veniva raggiunto, veniva completato con i familiari del poliziotto.

[42] CORNI 2001, 407.

[43] Il decreto emanato dalle autorità venne denominato in questo modo perché gli ebrei rimasti vennero sistemati in una zona adiacente all’Umschlagplatz che aveva l’aspetto di un calderone, precisamente tra via Mila, via Lubecki, via Smocza e via Niska; GUTMAN 1996, 107.

[44] All’incrocio di caseggiato formato dalle vie Gesia, Zamenhof, Lubecki, Stawki; EDELMAN, KRALL 1993, 57.

[45] EDELMAN KRALL 1993, 52.

[46] CORNI 2001, 409.

[47] Il dato riferito da Stroop a Krüger per le deportazioni è di 310.322 mentre la popolazione rimasta è valutata ad un massimo di 70 mila persone; HILBERG 1999, 897, n. 404.

[48] I dati sono stati ricavati da CORNI 2001, 410; le donne costituivano il 44% della popolazione rimasta nel ghetto contro il 57,28% rilevato dalle statistiche precedenti le deportazioni.

[49] GUTMAN 1996, 110; EDELMAN KRALL 1993, 58 parla di circa 60 mila persone rimaste nel ghetto.

[50] CORNI 2001, 467.

[51] GUTMAN 1996, 115.

[52] CORNI 2001, 410; GUTMAN 1996, 116 parla di 20-25 mila illegali.

[53] GUTMAN 1996, 131.

[54] RINGELBLUM 1965, 396 in data 15 ottobre 1942.

[55] È quanto emerge dal rapporto della ZOB inviato al governo polacco in esilio a Londra alla fine di novembre, consultabili sul sito internet dello Yad Vashem; CORNI 2001, 469.

[56] GUTMAN 1982, 271.

[57] HILBERG 1999, 538.

[58] GUTMAN 1996, 124.

[59] HILBERG 1999, 539.

[60] GUTMAN 1996, 125.

[61] EDELMAN, KRALL 1993, 64.

[62] EDELMAN KRALL 1993, 60.

[63] GUTMAN 1996, 126.

[64] EDELMAN, KRALL 1993, 60.

[65] CORNI 2001, 469.

[66] GUTMAN 1996, 129.

[67] Si pensa in realtà che ve ne fossero più di 50 mila, alcuni parlano di 70 mila come ad es. HILBERG 1999, 541.

[68] HILBERG 1999, 541.

[69] EDELMAN, KRALL 1993, 61.

[70] GUTMAN 1996, 134.

[71] CORNI 2001, 471.

[72] GUTMAN 1996, 135.

[73] GUTMAN 1996, 136.

[74] GUTMAN 1996, 138.

[75] GUTMAN 1996, 141.

[76] Gli ebrei che prima della distruzione del ghetto di Varsavia erano stati trasferiti in questi campi di lavoro, vennero uccisi in una carneficina nei pressi di Lublino nel novembre 1943 nell’ambito dell’operazione “festa della mietitura”.

[77] FRIEDMAN 201-203; HILBERG 1996, 537, tabella VIII/3: il Dror aveva cinque gruppi di combattimento, quattro a testa per Hashomer Hat’zair, Bund, comunisti; Akiba, Gordonia, Hanoar Hazioni, Po’alei Zion e Po’alei Zion di sinistra avevano un’unica unità combattente a testa.

[78] HILBERG 1999, 539.

[79] GUTMAN 1996, 144.

[80] HILBERG 1999, 542.

[81] Stroop a Krüger, 16 maggio 1943, PS-1061.

[82] HILBERG 1999, 540.

[83] Definizione che emerge dal rapporto di Stroop in relazione alle operazioni di liquidazione del ghetto.

[84] EDELMAN KRALL 1993, 67.

[85] GUTMAN 1996, 150.

[86] Lettera di Anielewicz al compagno Cukierman che nella parte ariana di Varsavia si occupava di recuperare arsenale per la ZOB, 23 aprile 1943, in Faschismus, Ghetto, Massenmord.

[87] EDELMAN KRALL 1993, 73.

[88] CORNI 2001, 473.

Bibliografia

Organizzazione militare ebraica: mappa concettuale

Il rapporto dettagliato di Jürgen Stroop

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